IL DECLINO DELL’EUROPA NEL DECLINO DEI SOCIALISTI

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11 Maggio 2022 di Massimiliano Amato

Tra le conseguenze più importanti della crisi internazionale in atto, la decisione di Svezia e Finlandia (guidate da due premier donne e socialdemocratiche) di rinunciare alla neutralità non è solo una minaccia quasi fatale per un equilibrio sopravvissuto all’inverno della Guerra Fredda e alle illusorie primavere successive. Può rappresentare anche l’archiviazione brutale di un complesso di dottrine (e comportamenti) in materia di sicurezza internazionale e di pace che, nella parte finale del Novecento, avevano fatto della tradizione politica e culturale alla quale si richiamano (almeno formalmente) le due leader – il socialismo europeo – un fondamentale elemento di stabilizzazione nel mondo diviso in blocchi. In effetti, l’ingresso nell’orbita Nato dei due Paesi scandinavi, di cui manca solo la formalizzazione, rischia di assestare un ulteriore colpo a una impostazione che era già stata orribilmente deturpata dal blairismo in occasione della Seconda Guerra del Golfo. Al di là e al di sopra della dimensione teorica e delle singole vicende nazionali (i socialisti italiani, per esempio, nel 1949 votarono contro l’adesione alla Nato, e Pertini usò toni e termini perentori per motivare quel voto nell’aula del Senato), quel complesso di dottrine (e comportamenti) crearono un abito mentale comune a molti protagonisti della scena politica e istituzionale europea del periodo che va dalla fine degli anni Sessanta, parecchio dopo la costruzione del Muro di Berlino, alla seconda metà degli Ottanta: da Olof Palme a Willy Brandt, a Bruno Kreisky, a Francoise Mitterrand, allo stesso Bettino Craxi, passando per i neolatini Mario Soares e Felipe Gonzales. Riassumibile nella sostanziale “equidistanza” – prim’ancora che politica psicologica – teorizzata e attuata dai socialisti rispetto ai blocchi in competizione. Anche e soprattutto da quelli che ebbero responsabilità di governo o di direzione della politica estera e di difesa in Paesi (ed erano la maggioranza) in cui il vincolo dell’alleanza atlantica era pacificamente accettato. Era anzitutto un atteggiamento pragmatico, che però nasceva da due convinzioni profonde e radicate nella lunga storia del socialismo di derivazione non sovietica, motore ideale dello stesso Manifesto di Ventotene. La prima: che per uno sviluppo ordinato della vicenda continentale dopo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale la pace fosse indiscutibilmente la principale tra le precondizioni essenziali (e in questa prospettiva non c’era praticamente alcuna differenza, né politica né ideologica, con le piattaforme dei partiti comunisti occidentali: di qui, per esempio, l’intenso rapporto tra Palme e Enrico Berlinguer). La seconda: che la scelta di campo atlantica (nei Paesi che l’avevano fatta) non significasse assolutamente una subordinazione agli interessi politici, strategici e militari degli Usa. Leggendo in controluce la storia europea di quegli anni, anche uno dei punti di crisi più rilevanti di questa dottrina – almeno quello che ci riguarda più da vicino: l’installazione dei missili Cruise e Pershing durante il governo Craxi – grazie al suo indispensabile corollario di “garanzie” pretese e ottenute dal nostro Paese si manifesta oggi più sotto la forma dell’occasione colta da Palazzo Chigi per una rivendicazione di autonomia più ampia dell’Italia rispetto agli obiettivi americani (la successiva vicenda di Sigonella si sarebbe incaricata di approfondire, perfino drammatizzandola, questa traccia) che come atto di acritica sottomissione alle strategie Nato. Il neutralismo propugnato dalle socialdemocrazie nordiche, che nel frattempo varavano modelli sociali così avanzati da finire nel cono d’interesse anche di quel pezzo del mondo comunista occidentale (tra cui il Pci) che cominciava a prendere le distanze dalla pianificazione centralizzata sovietica, si inscriveva quindi in questo filone. Dentro il quale si collocavano vicende virtuose come la Commissione Brandt che, partita su impulso dell’Onu nel secondo semestre 1977 per ripensare l’idea di riequilibrio tra il Nord e il Sud del mondo, concludeva i propri lavori alla fine del 1979 con un Rapporto che ai primi due punti collocava altrettanti obiettivi impossibili da raggiungere senza un ripensamento radicale della politica per blocchi contrapposti: la distensione internazionale e la riconversione dell’industria militare. Ma, probabilmente, ciò che di Willy Brandt parla di più a noi oggi è l’Ostpolitik della Repubblica Federale Tedesca varata durante il suo Cancellierato. L’accantonamento della dottrina Hallstein, che aveva ispirato le politiche di Adenauer, uno dei suoi soci fondatori, rappresentava un radicale cambio di paradigma per l’Europa, a cui l’ex sindaco socialdemocratico di Berlino indicava spazi di autonomia dall’iniziativa (ma soprattutto dai tentativi di imposizione ideologici) della Nato sul suo territorio impensabili fino a pochi anni prima. Nello stesso periodo in cui Willy Brandt (da Nixon definito “un figlio di puttana” e da Reagan considerato un nemico giurato) gettava le basi per la futura riunificazione tedesca, in Svezia, uno dei paesi che non aveva partecipato né alla Prima né alla Seconda guerra mondiale, diventava premier Olof Palme. Come ha ricordato sul Manifesto Aldo Garzia in quello che è stato, purtroppo, il suo ultimo articolo prima della scomparsa, a partire dal 1975 Palme inaugura una vera e propria campagna per la distensione: il neutralismo svedese comincia a diventare “attivo” con l’intervento che il leader socialdemocratico pronuncia alla Conferenza intergovernativa di Helsinki di quello stesso anno, attraverso il quale il governo svedese prende nettamente posizione a favore di un superamento dei blocchi guidati da Washington e Mosca. Con Palme, che aveva chiamato i bombardamenti americani su Hanoi con il loro nome e cognome, cioè “crimini di guerra”, Stoccolma abbandona l’isolazionismo durato più di sessant’anni trasformandosi in uno dei più intransigenti poli critici alle politiche espansionistiche americane, non solo in Europa. Nel contempo il leader svedese, che già aveva duramente condannato le repressioni delle rivoluzioni socialiste da parte dei tank sovietici a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968, mantiene le distanze dalla patria del “socialismo reale”, della quale resterà uno dei critici più feroci fino alla tragica morte, avvenuta nel 1986. Solo due anni prima di finire sotto i colpi di un misterioso killer mai individuato, Palme aveva consegnato al mondo i lavori della sua Commissione indipendente per la Pace e la Sicurezza internazionale. Un documento nel quale le censure al ruolo di Stati Uniti e Nato negli scenari di crisi internazionale, il loro spregiudicato (e praticamente senza ostacoli) protagonismo in vicende in cui ai “superiori interessi” atlantici erano stati sacrificati la sicurezza, la libertà e la democrazia di molti popoli (dal Cile al Sudafrica, al Nicaragua, senza contare il perenne embargo verso Cuba) viaggiavano parallele alle critiche al modello sovietico, nell’ambito di una visione che esaltava il ruolo terzo e autonomo dell’Europa. Simul stabunt, simul cadent: insieme staranno, insieme cadranno. L’antico brocardo del diritto civile italiano fotografa bene la situazione in cui siamo e due destini convergenti. Il declino della prospettiva socialista, sopravvissuta al crollo dei regimi dell’Est ma messa all’angolo dall’offensiva mercatista e neoliberista e spesso addirittura inglobata in essa sul piano economico, sociale e culturale, va di pari passo con quello di un’idea d’Europa, lungamente coltivata e praticata, come spazio geopolitico autonomo. E se crollano anche gli argini settentrionali, che hanno retto in contingenze anche più difficili di questa, lo scenario che si delinea è quello di una resa incondizionata di un mondo, di un’epoca, di una storia a favore di un nuovo ordine internazionale in cui la forza bruta è destinata, senza opposizioni di sorta, a prevalere sulla ragione. Con effetti nel breve, nel medio e nel lungo termine che tutti possono immaginare.    

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