Quando muore un filosofo

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14 giugno 2018 di Massimiliano Amato

Probabilmente Socrate muore tutte le volte che se ne va un filosofo. Nel caso di Roberto Racinaro l’ipotesi trova tragica fondatezza nelle pieghe angosciose di un’odissea esemplare dell’epoca nella quale ci siamo infilati un quarto di secolo fa e dalla quale non riusciamo ancora ad uscire. Quella della Giustizia uccisa dall’overdose di se stessa. Tutte le ambiguità, i fraintendimenti con la Storia e la morale, le zone oscure e impervie di questo lungo tunnel si ritrovano nella vicenda Racinaro. Sicché essa, analogamente a quanto avvenne due millenni e mezzo fa a Atene, è diventata compendio e legge universale. Destino individuale, dunque, che s’è fatto Storia durante il suo compiersi in vent’anni di astratti furori giacobini, meschini calcoli di convenienza, piccoli e grandi esercizi di pavidità e vigliaccheria di chi poteva (doveva) evitare l’esito fatale e non l’ha fatto.

Perché a svettare su tutto è stato il cinismo criminale della politica più deteriore. Compresa in un tenebroso e delirante disegno di dominio costruito mattone su mattone sul sangue degli innocenti. Il successivo lascito della normalizzazione termidoriana è rappresentato oggi da piccoli, insignificanti uomini che tanti anni prima, in “notti insonni vegliate al lume del rancore”, avevano divorziato dal concetto di umanità, senza mai più tornare indietro. Più tardi, si sarebbero industriati con l’inganno nella sfida intrapresa per capovolgere il loro (altrimenti ineluttabile) destino di falliti. Mentre Racinaro, il materialista dialettico dal volto umano, il raffinatissimo intellettuale che inverava i migliori auspici gramsciani, diventava uno dei massimi studiosi europei di Hegel.

Un inquietante Saint Just dal pallore cadaverico e gli occhi di ghiaccio azionò la ghigliottina, ma dietro quel gesto che decapitava con la medesima, affilatissima, lama la Giustizia e un uomo probo, andò simbolicamente a concentrarsi il cumulo immane di miserie di una stagione politica cupa, in cui tutte le vacche erano state fatte diventare nere, ma qualcuna era riuscita a rimanere miracolosamente immacolata, e su quel prodigio aveva iniziato a costruire le proprie fortune. Racinaro, che non aveva intascato una lira e nessuna contezza aveva maturato dei maneggi che si erano sviluppati intorno agli appalti universitari (una sorta di Bignami del finanziamento illecito, con i partiti che facevano la cresta sulle commesse con la stessa naturalezza con cui la massaia va a fare la spesa al supermercato) fu incarcerato perché “non poteva non sapere”. La meccanica, automatica trasposizione del rito ambrosiano, però, non fu fatta valere per i dante causa. Che poterono agevolmente sfilarsi dalle responsabilità e, una volta svoltato l’angolo, darsi un colpetto alla giacca, far scivolare la polvere e assumere un aspetto rispettabile e rassicurante. Come il ladro che, smessa la tuta e la maschera da lavoro, si lamenti dell’aumento della criminalità sorseggiando l’aperitivo al bar dopo aver messo a segno un colpo.

Fu l’amara consapevolezza di aver fatto da capro espiatorio, mai confessata apertamente anzi sempre abilmente dissimulata dietro la pur coltissima e disperata riflessione sulla Giustizia precipitata nel gorgo infame e criminogeno del giustizialismo, a consumare lentamente il Rettore gentile, l’umanista rigoroso che aveva gestito l’insediamento dell’ateneo fuori dal perimetro cittadino. Di fronte al suo calvario, lo stesso mondo accademico preferì girarsi dall’altra parte. Incapace di leggere nella solitudine del filosofo ingiustamente mandato a morte il default morale e civile di una città e una provincia sfregiate dall’artiglio acuminato di un sistema di potere pervasivo e irresponsabile, che fonda tuttora la sua forza sull’assoggettamento dei saperi e l’annullamento della società civile. Ridotta a inutile e grottesco orpello dall’egemonia della pratica clientelare.

Pur dando l’impressione di battersi per capovolgere la sorte decisa per lui, in fondo Racinaro accettò di lasciarsi morire, sulla scia della lezione del maestro ateniese. Perché non è scritto, ma è quasi certo che, tutte le volte che un filosofo ci lascia, Socrate muore un’altra volta. E così sarà per sempre, nei secoli dei secoli.

One thought on “Quando muore un filosofo

  1. Giuseppe Cacciatore ha detto:

    Sottoscrivo ogni parola del tuo articolo.

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