Le tre lezioni che ci lascia in eredità Peppino Cacciatore

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23 marzo 2023 di Massimiliano Amato

Tra le tante, tantissime, cose che lascia in eredità Peppino Cacciatore, maestro di vita e di socialismo scomparso il 2 marzo scorso, ce ne sono tre in particolare intorno alle quali par giusto far ruotare un omaggio postumo, nella consapevolezza che a lui sarebbe piaciuto essere commemorato così. Due sono insegnamenti destinati a rimanere scolpiti per sempre nella mente e nel cuore di quanti hanno avuto il privilegio di frequentarlo e di volergli bene, ai quali la sua morte consegna l’obbligo di una ineludibile messa in pratica. La terza genera pur essa una sorta di imperativo morale con cui (glielo dobbiamo soprattutto noi di questo giornale, il suo giornale) chiunque ne abbia condiviso il percorso politico e il fervido impegno civile sarà chiamato d’ora in poi a misurarsi nella quotidiana militanza delle idee, ch’è stato poi il tratto caratteristico e saliente di tutta la sua esistenza.
Il primo insegnamento di Cacciatore discende dai suoi rigorosi studi della teoria della conoscenza in Bloch, il filosofo della speranza cui ha destinato una delle parti più feconde e originali della sua attività di ricerca, e riguarda in particolare l’esplorazione del nesso tra libertà e verità. Un viaggio che non finisce mai, se non con l’esistenza stessa di chi decida di intraprenderlo. Un volo permanente che attraversa quasi tre millenni di pensiero filosofico e politico, e raggiunge il massimo della sua forza morale e vigoria storica solo nei cieli di Utopia, fissando in essi l’unico orizzonte per il quale valga la pena vivere, lottare, amare: in un’espressione, stare al mondo. La dinamica processuale di quel nesso, questo Cacciatore ce lo ha spiegato soprattutto con il suo esempio di intellettuale militante ma mai organico, è garanzia che libertà e verità non vengano mai a trovarsi in antitesi ma semmai in armoniosa e laica competizione, e rivelandoci questa suggestione egli ci ha trasmesso il suo amore sconfinato per entrambe, vissute come un’endiadi, l’una completamento dell’altra.
La seconda lezione (si fa moltissima fatica a parlarne al passato, non solo per un fatto affettivo e sentimentale) è legata senz’altro alla dimensione fin qui delineata, giacché contiene una prescrizione, una sorta di manuale d’uso, per chiunque si ponga nel tumultuoso fluire della storia e, animato dalla sola aspirazione a un miglioramento della condizione umana, sviluppi una coscienza critica del presente – e del passato: la storia come momento propedeutico all’agire e dunque, come teorizzava Croce, sempre contemporanea – in una prospettiva di cambiamento delle cose. Anche in questo caso, Cacciatore ci ha parlato attraverso la sua esemplare vicenda di studioso e di accademico a cui una prestigiosa genealogia familiare aveva trasmesso, per via ereditaria, il sacro fuoco della passione politica. Tracciando le sue scelte – dall’originaria iscrizione alla Federazione dei Giovani Socialisti (anno 1962: l’unica tessera che custodiva gelosamente nel portafoglio), al Psi, allo Psiup, al Pci e a tutti i suoi succedanei fino ai Ds – e ripercorrendo anche sommariamente sia la sua sterminata produzione scientifica che l’altrettanto prolifica attività giornalistica, risalta netta la linea lungo la quale egli si è mosso in più di 60 anni di attività pubblica. Che non è, come si sarebbe portati semplicisticamente a ritenere, quella di un riformista di sinistra nato, cresciuto e formatosi nel Dopoguerra. No. Pur recependone il portato storico nella propria formazione, Cacciatore sapeva benissimo – e non se lo nascondeva – che quel termine, “riformismo”, può anche non voler dire assolutamente niente. Lo stesso Turati – a cui pur da avvertito esegeta della unitarietà di teoria e praxis in Gramsci non ha mai completamente smesso di richiamarsi: neanche negli anni del, chiamiamolo così, esilio forzato nel Pci-Pds-Ds – lo aborriva, preferendogli il termine “gradualismo”. Il punto teorico e non politico, anche questo un distillato della pedagogia gramsciana, era nella considerazione che il riformismo è un metodo. Un mezzo. Quando si trasforma in fine innesca una deriva politicista al culmine della quale la sinistra smarrisce completamente la propria ragione sociale: l’esperienza storica ci insegna che proprio questo è avvenuto negli ultimi 30 anni, non solo in Italia ma in buona parte dell’Occidente. L’approdo a tale consapevolezza, alimentata dalla giovanile militanza nella sinistra del Psi (area Basso) alla quale già in cattedra dedicò un documentato saggio prefato da Francesco De Martino, nonché dalla lezione morandiana appresa dallo studio delle carte di zio Luigi, perso prematuramente quand’era ancora un ragazzino, e direttamente da papà Cecchino, ha contribuito a fare di Cacciatore un’autorevole guida morale per almeno tre generazioni di militanti di sinistra. Ai quali per più di mezzo secolo egli ha indicato senza equivoci né tentennamenti la strada della radicalità: dei valori e, ovviamente, dei fini. Perché mancando quella anche il riformismo più audace è destinato fatalmente a fallire. Per dirlo con le parole adoperate recentemente da un suo collega, Mario Tronti: se si vuole cambiare il mondo con una qualche efficacia, bisogna innanzitutto spaventarne i padroni. 
A questi due insegnamenti è collegato, quasi come naturale conseguenza, il compito che ci lascia, codificato in quella sorta di testamento morale a rilascio lento rappresentato dagli scritti giornalistici dell’ultima parte della sua vita. Peppino Cacciatore ha chiuso gli occhi sul mondo portandosi dentro un dolore quasi fisico: a procurarglielo era l’assenza sulla scena politica italiana di un grande e forte Partito Socialista. La considerava un’anomalia inaccettabile: lo scriveva e ribadiva in termini accorati, sia nelle conversazioni private che nelle occasioni pubbliche. Sottolineando un’esigenza che articolava correttamente nella formula oggi più “necessaria”: quella della creazione di una autorevole forza “per” il Socialismo e non, semplicemente, “del” Socialismo. Anche qui una visione lucidissima, che derivava dai superiori strumenti di comprensione della realtà storica di cui disponeva, temprati nelle officine teoriche dello storicismo esistenziale vichiano: l’eredità e l’“eccedenza del passato” (altra suggestione blochiana) che di volta in volta si fa presente nel “novum” secondo la definizione di un altro grande maestro pure lui salernitano, Giuseppe Cantillo. Per questo – perché cioè la prospettiva di lotta e di impegno politico più adatta ai tempi avesse almeno la forza e lo strumento per una testimonianza culturale – ci aveva affidato con entusiasmo la testata di famiglia, consentendone la rinascita. Continueremo in suo nome, tenendo a mente sempre la metafora di Willy Brandt del navigatore e dell’orizzonte da raggiungere, che ci ripetevamo vicendevolmente soprattutto nei momenti in cui sembrava più facile cedere allo sconforto per la situazione che ci si presentava davanti. Gli occhi lucidi di commozione, il cuore pieno di speranza.
Chi ha compagni non muore mai. Ciao, indimenticabile compagno e maestro.

*da IL LAVORO, n. 9 – MARZO 2023

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