Il Lavoro, un secolo di lotta democratica
Lascia un commento3 novembre 2022 di Massimiliano Amato
Solo 48 ore prima, il 30 ottobre, il destino tragico della nazione si era compiuto nell’atto con il quale, arrendendosi senza combattere a un biennio di brutali violenze di piazza sfociate il 28 nella grottesca marcia sulla Capitale di un manipolo di facinorosi senza progetto, Vittorio Emanuele III aveva spalancato le porte del potere al fascismo. Meno di un mese era passato, invece, dall’evento che, più ancora della scissione di Livorno di un anno prima, avrebbe segnato per sempre la vita del socialismo italiano, indicandogli inequivocabilmente la strada dell’autonomismo: il congresso di Roma, nel corso del quale i massimalisti capeggiati da Giacinto Menotti Serrati applicando il diktat della Terza Internazionale avevano messo fuori dal Psi i gradualisti di Filippo Turati, Giacomo Matteotti e Claudio Treves, i quali avevano fondato il Psu, Partito socialista unitario. Si trattava di un passaggio epocale, la cui importanza non era sfuggita ai dirigenti socialisti salernitani, da Luigi Cacciatore a Raffaele Petti, a Ruggero Fiorillo, che a metà ottobre, a Vietri sul Mare, avevano schierato la federazione sulle posizioni turatiane. In questa temperie, il giorno di Ognissanti del 1922, esattamente cento anni fa, dai torchi de Il Tipografo Salernitano, una cooperativa socialista con sede al civico 8 di via Raffaele Conforti (domicilio anche di direzione, redazione e amministrazione del giornale) usciva il primo numero de Il Lavoro, redattore responsabile Fiorillo (ingegnere come Luigi Cacciatore), autore di diversi trattatelli con qualche aspirazione filosofica pubblicati sulla Critica Sociale, la storica rivista del socialismo milanese fondata nel 1891. Luigi Cacciatore, tra i principali ispiratori dell’operazione editoriale, assumeva invece l’incarico di corrispondente de La Giustizia, organo nazionale del Psu diretto da Treves. Il nome della testata costituiva quasi una provocazione lanciata alla “frazione comunista” che nel 1921, impadronendosi della Camera del Lavoro (quarta in Italia dopo Trieste, Taranto e Livorno, a passare con il Pcd’I), si era portata via con lo storico leader sindacale Nicola Fiore anche Il Lavoratore, nato nel 1901 come organo delle leghe operaie e bracciantili provinciali, divenuto successivamente giornale socialista e infine, dopo Livorno, trasformato ne Il Lavoratore comunista. Il giornale di Cacciatore, Petti (eletto a Vietri segretario della Federazione provinciale) e Fiorillo (segretario della sezione del capoluogo), invece, usciva come “Organo della Federazione Provinciale Socialista Unitaria”. Otto pagine, grafica sobria e rigorosa come imponeva il gusto del tempo, il primo numero de Il Lavoro era stato composto e chiuso in tipografia qualche ora prima del conferimento dell’incarico a Mussolini, avvenuto alle 11.30 del penultimo giorno di ottobre. Fin dal titolo, il corsivo di prima pagina “Ruit hora” (l’ora precipita) testimoniava questo leggero ma decisivo ritardo temporale sui fatti che avrebbero cambiato la storia d’Italia precipitando il Paese nel baratro di una sanguinosa dittatura: “Mentre questo nostro giornale, che sorge per riaffermare la nostra indistruttibile fede nel divenire della società umana, va in macchina, gravi avvenimenti maturano, dei quali, per la scarsezza di notizie, non possiamo stabilire l’importanza e la portata. ‘La miserabile classe dominante’, come giustamente Mussolini ha definito tutte le varietà della democrazia italiana, agonizza, ignominiosamente. La dinastia, trepida della minaccia insurrezionale, accetta l’imposizione fattale nelle manifestazioni fasciste di Cremona, di Udine e di Napoli. La marcia fascista è in moto. Il quartier generale fascista si accampa a Perugia, di fronte al vecchio stato democratico che, a Roma e in altre province, cade a brandelli”. Il corsivo, senza firma e quindi attribuibile al direttore, perlustrava con preoccupazione il nebuloso orizzonte: “Il paese non sa ancora che cosa vuole il fascismo: di parole ne abbiamo abbastanza, fatti ci vogliono. Il colpo di bastone è un motivo di cronaca nera, non è un fatto politico. Racimolare scontenti, disoccupati, fanatici e arrivisti in tutte le classi sociali significa costituire una massa amorfa e turbolenta, ma non un partito politico. Tuttavia il fascismo, questa meteora dai sinistri bagliori e dai contorni imprecisati, conquisterà o meglio consacrerà con un gesto esteriore, la conquista del potere esecutivo. Sarà costretto, allora, a svelare i suoi piani, ad enunciare un programma, a meno che in questa ventata di follia collettiva non si pensi che il governo migliore sarà quello che non avrà idee precise in materia finanziaria ed estera”. La chiusa, letta con il senno del poi, suona esageratamente ottimistica. In linea, del resto, con la più generale sottovalutazione della pericolosità del fascismo che sia i socialisti (massimalisti e gradualisti) che i comunisti, che gli stessi liberali facevano in quelle ore e in quei giorni così drammatici: “Noi fedeli alle nostre idee e alla nostra storia attenderemo la chiarificazione, cercheremo di contribuire a che essa si compia al più presto, giacché dalla maturazione degli eventi abbiamo tutto da guadagnare e nulla da perdere”.
La presa del potere da parte dei fascisti trovava spazio anche in ultima pagina, nelle “Spigolature”, pur esse anonime. Una serie di puntute provocazioni, una delle quali sottolineava come, anche in quel delicatissimo tornante della vicenda nazionale fosse venuto a galla un immutabile vizio della società e della politica italiane, come il trasformismo: “Tutti oggi corrono al Fascismo (scritto con la maiuscola, ndr). La grande massa di cercatori di favori e di protezioni, incapaci dello sforzo umano per procurarsi una individuale indipendenza, accorrono a elemosinare presso i nuovi padroni. Oggi come ieri, come quando le Camere del Lavoro erano gremite!!”. Un’altra puntura di spillo riferiva della reazione della città all’avvento al potere dell’uomo di Predappio, e sulla mobilitazione che ne era seguita, soffermandosi su un aspetto particolare: “Anche a Salerno è esplosa la esultanza delle nuove falangi italiche. Le vie della città echeggiano delle grida festose dei ricostruttori, i quali hanno iniziato anche il reclutamento dei bimbi. ‘Due lire al mese o bimbi, ed avrete una divisa fiammante con la testa di morto ed il fascio littorio. Se poi volete sapere che cosa vogliono fare di voi i fascisti sappiate che voi dovrete salvare la Patria. Se poi volete conoscere la via della salvezza sappiate che dovrete bastonare i padri vostri che lavorano!’. A noi!”. Buona parte del primo numero – che a pagina 2 pubblicava una sorta di “cartolina da Salerno” di uno dei big del Psu, Enrico Ferri (poi avvicinatosi al fascismo), mantovano rimasto “folgorato” dalla bellezza della città – era dedicata ai congressi, nazionale e provinciali, dai quali era nato il nuovo partito di Turati, con segretario Giacomo Matteotti. Nel lungo articolo dedicato alle assise nazionali, in prima pagina, il giudizio sull’ennesima scissione era secco, lapidario: “Il congresso socialista ha sanzionato la separazione tra le cosiddette due anime, quella gradualista e quella rivoluzionaria. Ne era tempo. Se questa scissione si fosse verificata a Livorno, forse, anzi certamente, molti errori si sarebbero evitati. Il partito era, infatti, dannato all’inerzia non solo dalla incapacità assoluta dei nuovi dirigenti, appartenenti al massimalismo più parolaio, a comprendere e a risolvere i problemi di indole politica e sindacale che i tempi turbinosi, giorno per giorno, proiettavano sullo schermo della vita politica interna e internazionale; ma benanche dalla forzata coabitazione di due mentalità diverse e contrarie, l’una amante delle astrazioni, l’altra fattiva, e dotata di un acuto senso realistico”. Il lungo articolo, firmato “ruber” ripercorreva tutta la storia del socialismo italiano, esaltando l’impostazione gradualista di Turati, che era riuscita a creare “uno Stato nello Stato” attraverso la rete di “Camere del Lavoro, Federazioni, Sindacati, Cooperative, con tutti i loro organi di consulenza e direttivi, con tutte le loro propaggini in tutti i campi della vita sociale, e con 156 deputati alla Camera”. “Il vecchio stato capitalista spiava i movimenti del nuovo stato creatosi nel suo grembo, per cogliere l’istante di debolezza e soffocarlo; preparava quindi gli ordigni adatti per tale opera, servendosi di Nitti, che istituì la guardia regia, e di Giolitti che la fomentò ed organizzò le bande armate irresponsabili”.
Il secondo numero si apriva con un articolo – sempre firmato “ruber” – che nonostante il titolo, “Ore di attesa”, si basava su una percezione molto netta della svolta ferocemente reazionaria che il colpo di mano dei fascisti spalancava davanti al Paese. Non sfuggiva all’autore dell’articolo la “resa” del ceto medio alle violenze squadriste: “Che tutte le classi parassitarie si stringano intorno al governo è cosa naturale, logica, necessaria. Che masse di proletarii, abbagliati dal fenomeno di una forza armata contro le istituzioni statali e nel contempo protetta dallo stato, ovvero abbacchiati dal manganello, faccia abiura della vecchia fede e creda nell’anticristo, è cosa anch’essa spiegabile. Ma che il nostro stupido ceto medio, formato di professionisti, piccoli proprietarii ed impiegati non si accorga del precipizio che lo attende, è cosa da strabiliare”. Il giornale recava la data del 16 novembre, lo stesso giorno della presentazione del gabinetto Mussolini alla Camera con il tristemente celebre “discorso del bivacco”, ma probabilmente era stato chiuso in tipografia dopo la muscolare esibizione del duce a Montecitorio. Sempre nella prima pagina un corsivo molto tagliente prendeva di mira i deputati liberali, “i variopinti deputati delle innumerevoli democrazie” e i “trepidi deputati del pipi”. “Il nostro signore e duce Mussolini – scriveva l’anonimo corsivista – ha detto: ‘questa Camera può durare due giorni come due anni’. La magnifica frase, tradotta in volgare, significa: ‘Signori deputati, voi siete inutili e ingombranti, tuttavia se piegate la schiena e non mi darete noia, facendovi vedere il meno possibile, io vi permetterò di vivere’. La cosa è chiara, Signori – continuava il corsivista – conserverete la medaglietta ma dovete dimettervi da uomini. Noi siamo sicuri che sarete all’altezza della situazione, la medaglietta vale bene un paio di inutili coglioni. Al corteo trionfale del duce mancavano le centurie degli schiavi. Affrettatevi a colmare la lacuna”. Il destino del Parlamento del Regno però era segnato: i fatti dei mesi e degli anni successivi, si sarebbero incaricati, purtroppo, di andare parecchio oltre le già ultrapessimistiche e rassegnate considerazioni del giornale socialista salernitano, che nel ’25 sarebbe stato chiuso dal regime.