La “sparizione” del Pd
Lascia un commento12 Maggio 2016 di Massimiliano Amato
Se mai si volesse misurare il reale grado di fallimento del Pd come grande partito nazionale, formula che è tutt’altra cosa rispetto a quella renzian-verdiniana di “partito della nazione”, Salerno e la sua provincia costituirebbero eccellenti indicatori. Nelle 42 realtà locali, compreso il capoluogo, che rieleggeranno sindaci e consigli comunali nella tornata amministrativa di inizio giugno, il simbolo del primo partito italiano, il partito che, tanto per dire, esprime il capo del governo (e quello dello Stato), un alto numero di ministri, viceministri, sottosegretari, deputati e senatori, i presidenti di importantissime regioni come il Lazio, la Campania, la Puglia e il Piemonte, ed è alla guida (con le legittime “insegne”) di numerose città piccole e grandi, è presente sulla scheda elettorale in un solo Comune. A Battipaglia. Perfino Forza Italia, partito ormai imploso a livello nazionale, è riuscita a fare meglio: oltre a Battipaglia, è in campo anche a Salerno. Mentre i pentastellati avranno anche dato forfait nelle due maggiori realtà chiamate al voto, ma corrono con il loro simbolo in tre comuni: Vallo della Lucania, Altavilla Silentina e Praiano. D’accordo: le amministrative sono da sempre la culla del protagonismo cosiddetto civico, una forma “basica” di partecipazione politica che è insieme fattore e motore di ricchezza democratica e di pluralismo. Anche la Dc, il Pci e, in misura però minore, il Psi (solo per stare ai tre partiti di massa strutturati della prima fase della storia repubblicana) all’ombra dei campanili si scioglievano spesso in aggregazioni trasversali in occasione del rinnovo dei Municipi. Ma la loro partecipazione diretta alle competizioni elettorali, con tanto di simbolo sulla scheda, non scendeva mai al di sotto di una certa soglia, comunemente considerata fisiologica. C’era, è vero, l’esigenza di contribuire alla formazione del risultato nazionale in occasione di ogni test amministrativo. Cosa, per esempio, della quale a Salerno città si fa volentieri a meno, giacché il simbolo del Pd e del maggiore dei suoi antenati, il Pds-Ds, latita sulla scheda da quasi 25 anni. Ma i partiti storici avevano soprattutto antenne molto lunghe. E le azionavano (quando le condizioni lo consentivano) soprattutto in occasione delle elezioni amministrative. Per formare sui territori, nel tentativo di arginare le inevitabili degenerazioni notabilari, una “classe dirigente diffusa” che per più di mezzo secolo ha garantito un esercizio più o meno corretto della rappresentanza politica. Un sindaco democristiano, comunista, o socialista, costituiva innanzitutto un quadro dirigente di partito di livello intermedio. E in forza di questa sua collocazione stabiliva un rapporto con il “centro” che lo aiutava, e non poco, nella sua attività di amministratore. Era, quella, la democrazia “proporzionale” (rottamata brutalmente con la legge sull’elezione diretta dei primi cittadini), in cui le assemblee elettive, dove si concentra il nucleo più autentico della sovranità popolare, avevano un peso determinante. La democrazia “maggioritaria” ha spazzato via tutto ciò, rendendo di fatto superfluo il ruolo dei partiti. Come tutti sanno, nell’ultimo quarto di secolo Salerno ha rappresentato un avamposto privilegiato (anche se non un unicum) del nuovo modo di intendere la natura del governo locale legato all’emersione del fenomeno (D’Alema dixit) dei “cacicchi”. Tuttavia, tra le tante contraddizioni di questa interminabile fase di passaggio (l’eterna transizione) da un sistema all’altro, che il governo in carica pensa di troncare brutalmente strapazzando la Costituzione o almeno una parte importante di essa, c’è anche l’atteggiamento di grande ambiguità del primo partito italiano in tema di rapporti tra centro e periferia. Per essere più chiari. Il Pd, almeno quello tenuto a battesimo da Veltroni con il celebre discorso del Lingotto, costruì il proprio atto fondativo intorno a un punto irrinunciabile che non è stato mai messo in discussione, almeno formalmente: che fosse un partito presente con il proprio simbolo, i propri circoli, i dirigenti e i militanti, in ogni angolo del Paese. Una comunità diffusa e multiforme, ma con un’identità comune. Il progetto si è dimostrato velleitario per una serie interminabile di ragioni. Non ultima la forma che la Costituzione materiale ha dato alla democrazia italiana negli ultimi anni. Ma che addirittura il simbolo del partito potesse quasi completamente sparire su un territorio vasto quanto una regione, oltretutto in una consultazione i cui esiti, checché ne dica Renzi, avranno (eccome) riflessi sugli equilibri politici nazionali, nemmeno i critici più spietati avrebbero potuto prevederlo. Ovviamente, in tutti i 42 Comuni chiamati al voto, o almeno nella stragrande maggioranza di essi, ci sono candidati, a sindaco e nei consigli comunali, con la tessera (e in molti casi con ruoli dirigenti) del Pd. La generalizzata rinuncia al “marchio di fabbrica”, tuttavia, indica una crescente disaffezione per il progetto che non può non avere radici e motivazioni politiche profonde. Resta l’immagine di uno spettacolo desolante: è plausibile ritenere che in moltissime realtà locali medio piccole, soprattutto al Sud, il “brand” del partito non sia mai realmente penetrato. E viene provocatoriamente da chiedere agli iscritti e ai militanti della provincia di Salerno a chi giovi continuare a tenere aperta la federazione di via Manzo.
Ma sarebbe, in tutta evidenza, una domanda retorica.