L’Armageddon che condanna il Pd

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15 ottobre 2014 di Massimiliano Amato

E’ in tutta evidenza una forzatura considerare le elezioni (ma ha senso chiamarle così?) provinciali di domenica scorsa un test di “medio termine” in vista delle Regionali del prossimo anno. Alle ragioni per così dire strutturali (votavano i sindaci e i consiglieri comunali e non il corpo elettorale, mentre lo strambo meccanismo ponderale – chissà  quanto compatibile con il dettato costituzionale – conculcava in anticipo il principio “una testa un voto”, e così via) se ne aggiungono altre che sono esclusivamente politiche. La prima, fondamentale per una corretta lettura dei risultati, è rappresentata dall’assenza del Movimento Cinque Stelle (oltre il 20% dell’elettorato). La seconda: le due maggiori coalizioni che si fronteggeranno a maggio per la conquista di Palazzo Santa Lucia restano cantieri aperti. In cui non c’è certezza di niente. Il centrodestra mantiene un’incollatura sull’altro schieramento, pur nel caos sottolineato dal voto di domenica, soprattutto a Salerno. L’aver individuato già il candidato (Caldoro) costituisce ancora un minuscolo vantaggio che, tuttavia, la guerra tra bande rischia di azzerare presto.

Buon per il governatore uscente che il centrosinistra sia ancora in altissimo mare. I partiti minori si sono rarefatti a contatto con l’atmosfera: di SeL non si hanno più notizie, è sparita completamente dai radar; il Centro democratico in Campania non esiste, e se esiste è solo la segreteria politica di qualche onorevole eletto grazie ai resti del Pd; infine, il più piccolo e irrilevante Partito socialista della storia politica d’Occidente, pur conservando (e non se ne capiscono le ragioni) le gloriose insegne della prestigiosa ditta fondata da Filippo Turati nel 1892, si è di fatto sciolto nel partitone più grosso. Il Pd, appunto.

L’avvocato Assunta Tartaglione (nella foto), planata in pochi mesi dalla grigia routine di anonime aule giudiziarie di periferia prima su uno scranno di Montecitorio e poi al vertice del partito regionale, in cuor suo starà rimpiangendo, forse, il tranquillo tran tran dell’azzeccagarbugli di provincia. La tattica che ha adottato è chiara: immobilismo assoluto. Un time out prolungato, in attesa non si sa bene di cosa: forse, chissà, di un segno del destino. Lo sguardo supplice, che saetta attraverso le spesse lenti da presbite, è puntato però sul Nazareno, nella speranza, finora risultata vana, che qualcuno intervenga e pronunci la fatidica frase: “In hoc signo vinces”. In questa situazione di sospensione della realtà si è creato un deserto di pensiero e iniziativa politica nel quale anche modesti imbonitori da foro boario riescono impunemente a spacciarsi per battitori d’asta di Christie’s. A Salerno basta alzare lo sguardo verso i tabelloni che accolgono i famosi (o famigerati) 6×3 per inciampare nel fenomeno. Agli osservatori più avvertiti non è sfuggita l’annunciata riproposizione, in sede di primarie, di un duello che la sedicente “rivoluzione” renziana avrebbe dovuto derubricare ad anacronismo: quello che, dal Pci in poi, passando attraverso tutti i succedanei, fino all’odierno Pd, da circa un trentennio mette di fronte Salerno e Napoli. I più immaginifici si sono spinti a rappresentarlo come l’Armageddon di una guerra di civiltà che sta lentamente dilaniando la sinistra campana.

Il punto più debole di questa contrapposizione, che espone il Pd al rischio di una quasi certa sconfitta chiunque sarà il vincitore delle primarie, è proprio la sua natura di scontro tra modelli territoriali. Un assurdo, un controsenso, o peggio ancora una follia, trattandosi di una partita che ha come posta in palio la corsa per il governo di tutta la Campania, rispetto alla quale sarebbe auspicabile avere una “visione” complessiva. Soprattutto su questo terreno, quello programmatico cioè, Caldoro potrebbe essere più di una spanna avanti. Perché la verità è che questo duello rusticano inibisce al Pd qualsiasi sintesi plausibile per il governo di una regione complessa, già abbondantemente devastata dall’illegalità e dalla pessima politica. Il partito potrà scegliere di uscirne assecondando le pulsioni populiste che attraversano le sue vene. O decidere di mettersi tutto alle spalle, superando una volta e per tutte la dicotomia che minaccia di condannarlo alla pena perpetua dell’enunciazione (e della guerra guerreggiata interna) senza progetto. Dovrebbe decidere, insomma, di diventare finalmente quella forza riformista e di governo di cui l’elettorato progressista della Campania avverte il bisogno, per sentirsi realmente alternativo al centrodestra (soprattutto né culturalmente, né politicamente subalterno ad esso), e evitare sia le tentazioni grilline che la rassegnazione del non voto. E allora, qualcuno salvi la soldatessa Tartaglione…

MASSIMILIANO AMATO

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